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2019
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Didier Ruiller e il sottotitolaggio: un viaggio andata e ritorno

Scopriamo l’esperienza di un traduttore nel settore del sottotitolaggio, un settore sempre più importante dei media, del cinema e delle serie tv.

Appassionato per le lingue, Didier Ruiller ha studiato traduzione all’ISIT, a Parigi, dopo aver conseguito la maturità scientifica. Grazie alla sua passione per le serie e i dialoghi, si è poi specializzato in traduzione audiovisiva. La sua prima esperienza in uno studio di sottotitolaggio in cui occupava un posto più tecnico che incentrato sulla traduzione, gli ha permesso di imparare tutti i trucchi del mestiere e crearsi una rete di contatti.

Pur mantenendo il sottotitolaggio come attività principale, si è interessato anche all’editoria. Il Gruppo Flammarion gli affida, all’epoca, la traduzione di diverse opere tratte dalla collezione «Sans aspirine» che tratta le scienze umane da un punto di vista divertente e insolito. In seguito, si dedica all’insegnamento, all’ISIT, dove prova a trasmettere tutto ciò che aveva imparato nella pratica e a confrontarsi con il pubblico. «Animare un corso significa affrontare un assistente con dei pregiudizi che vi giudicherà sulla vostra capacità di trasmettere i concetti. E anche se siete lì in primis per condividere la passione del vostro mestiere, non bisogna dimenticare che la vostra è anche una performance. Dovete essere accattivanti, convincenti e stimolanti. Se non siete bravi, ve ne accorgerete subito!» sottolinea Didier Ruiller. Il cerchio si chiude. Per 10 anni, questo specialista della traduzione audiovisiva e del sottotitolaggio ha dunque alternato le sue due principali attività: da un lato la traduzione e dall’altro l’insegnamento.

In questa intervista con Cultures Connection, questo fanatico di film in versione originale ci racconta l’esperienza di traduttore e condivide con noi la sua passione per l’insegnamento.

Lei ha lavorato al sottotitolaggio di « Drive » di Nicolas Winding Refn, quali erano le condizioni di lavoro e di confidenzialità?

L’obbligo di confidenzialità è evidente. Dal momento in cui il cliente vi affida l’adattamento di un lungometraggio, avete a disposizione il copione e l’immagine poiché si lavora sempre a partire da un video del film in questione. Perciò, è chiaro che noi traduttori siamo tenuti a non divulgare niente. Lavoriamo appartati senza parlare con nessuno.

Ora, a seconda del film o del programma su cui si lavora, c’è un grado di confidenzialità diverso. Riguardo alle grandi uscite, sussistono alcune norme e i traduttori devono firmare degli accordi. È successo più volte anche a me. Una collega mi ha anche raccontato che per un film è stata costretta a lavorare negli studi del distributore per evitare che circolassero copie o versioni del film.

Comunque, nella maggior parte dei casi, si lavora da casa e il cliente conta sulla nostra discrezione per non rivelare nulla del film e della trama. Prima di tutto, è un rapporto di fiducia con il distributore. Lui sa che non diffonderemmo il film perché sarebbe come tirarsi una zappa sui piedi.

Nella professione diciamo spesso che il sottotitolaggio migliore è quello che non si nota.

Cosa bisogna fare perché lo spettatore possa godere del film mentre legge?

È proprio questo che rende difficile e interessante il sottotitolaggio. Non c’è niente di peggio per lo spettatore che passare la maggior parte del tempo con gli occhi incollati sulla parte inferiore dello schermo. Il sottotitolo deve perciò fare da sostegno. Ovvero, deve aiutare lo spettatore a seguire il film ma non deve mai prendere il sopravvento sull’immagine e su ciò che passa sullo schermo. Inoltre, noi della professione diciamo spesso che il sottotitolaggio migliore è quello che non si nota. Quando chiedete allo spettatore che cosa pensa dei sottotitoli, se vi risponde che non lo sa, significa che è andato tutto liscio. Infatti, la sfida sta nel riuscire a inserire un testo che non superi la leggibilità massima alla quale abbiamo diritto per ogni sottotitolo, permettendo allo spettatore di capire istantaneamente ciò che gli attori dicono sullo schermo. Ed è per questo che spesso diciamo che più che di una traduzione audiovisiva si tratta di un adattamento. Non abbiamo la possibilità – come un traduttore letterario – di ricorrere alle note di traduzione. Nella traduzione audiovisiva o nel sottotitolaggio, siamo limitati dal tempo e dallo spazio ed è importante che la comprensione dello spettatore sia immediata, specialmente se si lavora su registri molto particolari come l’humor.

Prendiamo l’esempio dell’inglese. Ci sono delle cose che non saranno uguali nella lingua d’arrivo perché lo humor anglosassone non è uguale a quello francese. L’inglese possiede molte parole corte, da 3 a 5 lettere, in cui è sufficiente cambiare una lettera per cambiare il senso. Lo humor francese gioca su un registro differente. In questo momento, sto lavorando sui Late Show americani, dove la differenza si fa lampante: siamo obbligati ad adattare. Ci sono delle parole o espressioni che suonano bene se trasposte da una lingua ad un’altra ma se entrano in gioco la fonetica e l’omonimia, allora le cose si complicano. Lo humor è la difficoltà maggiore di questo mestiere ma è anche ciò che lo rende appassionante.

La seconda difficoltà con la quale ci siamo dovuti confrontare è che l’inglese è una lingua più concisa e sintetica rispetto al francese. Tra l’inglese e il francese c’è un coefficiente di espansione del 20%, il che significa che un testo in inglese genererà un testo più lungo se tradotto in francese. Siamo perciò obbligati a condensare e riassumere i discorsi. Se, ad esempio, il parlante in inglese pronuncia tre frasi, ognuna contenente un’idea diversa, bisogna trovare una scorciatoia in francese che riassuma le tre idee. In alcuni casi, siamo costretti a sacrificare una delle tre frasi, sempre che non siano fondamentali al contesto. Saper padroneggiare l’implicito è essenziale, così come sapersi destreggiarsi tra i sinonimi.

Lei ha diretto il Master in Comunicazione Interculturale e Traduzione all’ISIT, quali sono i vantaggi di amalgamare comunicazione e traduzione?

Quando ero studente, l’ISIT formava esclusivamente ai mestieri della traduzione e interpretazione. Si usciva dalla scuola con una laurea in traduzione e/o interpretazione, e ciò mi era molto utile dato che era quello che volevo fare. La scuola ha poi deciso di diversificare la sua formazione per adattarsi a un mercato lavorativo in continua evoluzione, ma sempre nell’ambito linguistico e interculturale. Adesso, propone una formazione incentrata sulla comunicazione, il management e l’interculturalità che permette ai giovani laureati di lavorare in altri settori oltre la traduzione come le risorse umane, il marketing, la comunicazione interna ed esterna dell’impresa, tutto ciò nelle diverse lingue di lavoro.

Sono queste le competenze acquisite dai nostri studenti durante il corso, ma saranno soprattutto le loro competenze linguistiche e culturali a fare la differenza sul mercato del lavoro. Un giovane laureato saprà, in questo modo, gestire perfettamente da solo un team di lingua spagnola composto da un colombiano, uno spagnolo e due cileni, ad esempio, poiché domina i codici propri di ogni paese e cultura.

 

Quale sceneggiatore vi piacerebbe tradurre?

Non saprei. Mi piacerebbe lavorare per molti registi. Ho avuto la fortuna di tradurre «Drive » di Nicolas Winding Refn, e altri suoi film. È un regista che produce film con pochi dialoghi e lavora soprattutto sulle inquadrature, la fotografia, l’ambiente. Mi piace quello che fa. Inoltre, non ho mai avuto l’occasione di lavorare sui film di Wes Anderson, un regista che apprezzo molto, ma mi piacerebbe molto tradurli. Mi piacerebbe anche riadattare alcuni grandi classici che si vedono in tv i cui sottotitoli avrebbero bisogno di una bella rispolverata!

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Questo articolo è stato scritto da Lara

Lara ha studiato fotogiornalismo presso IHECS a Liegi (Belgio). Ha viaggiato molto in Asia e in Nuova Zelanda. Ora vive a Buenos Aires e lavora a Cultures Connection.